L'ascensore
inizio Novecento scandisce il suo passaggio a ogni piano. Oltre la
gabbia nera scorrono le porte massicce e lucide. Ne percepisce
l'odore nel ricordo; olio di lino e agrumi.
L'ascensore
si ferma con un saltello e la lampadina sul soffitto di mogano si
spegne. Lo stesso problema di allora.
La tromba
delle scale è fresca anche all'ultimo piano. La luce filtra smorzata
dai vetri marroni del lucernario.
Quattro
serrature l'una sull'altra dopo un'estate di furti. Due sono senza
chiavi da tempo, le altre si aprono senza cigolare con una Yale
dorata e una chiave lunga d'acciaio. Il giorno prima il portinaio ha
spruzzato lo Svitol.
L'atrio
lungo e stretto, senza finestre, è chiuso in fondo da un tramezzo di
legno dipinto di celeste. Al centro la porta.
Tante volte
si era chiesta di che tonalità fosse quell'azzurro che stava
dappertutto, persino sulle cornici della tomba. Cercava un nome
semplice, come in fondo era semplice l'idea di dipingere di azzurro
tutto quello che era di legno.
Alla
fine aveva deciso. Era celeste.
La
stanza grande, come la chiamava lei, è inondata di luce. Le gambe
del letto sono ancora infilate in grossi barattoli di vetro. «Per
gli scarafaggi, capisci? Non è bello sentirseli camminare sul viso
la notte. Le zampette non fanno presa sul vetro e scivolano a terra.»
Le
sue spiegazioni erano chiare e semplici, e ogni domanda si esauriva
con una risposta.
Si
avvicina al piccolo tavolo con le due sedie e ritrova il suo posto di
fronte alla finestra. I vetri sono sudici come allora. «Non riesco a
fare forza con le mani. Tutta colpa dell'artrite, vedi?» E le
mostrava le dita contorte e fragili, i polsi esili e nodosi come il
legno dell'ulivo.
Passa
un palmo sul tavolo celeste impolverato: la scrivania dei primi
dettati pieni d'errori, delle conversazioni faticose e della
timidezza da sciogliere, e poi finalmente delle pagine pulite senza
correzioni, e del linguaggio spedito nei suoni diventati familiari.
Madame
era
diventata l'amica da cui ritornare ogni sabato.
Scosta
la sedia e si alza, lo sguardo che cerca i cestini celesti con i
fiori di plastica: uno è per terra in mezzo alla stanza, uno accanto
alla porta e uno sul letto. In bagno devono essercene altri due, se
ricorda bene. I colori dei fiori sono tutti grigio polvere.
Era
in ritardo quella volta. Nella stanza grande era accesa solo la
lampadina accanto al letto. La figura scarna di Madame
le venne incontro nella penombra: una richiesta sussurrata e il gesto
di una mano verso il letto mentre l'altra le porgeva un metro da
sarta.
Un
brivido, l'impulso di andarsene. Ma ovviamente rimase. Si avvicinò
al letto e prese le misure tendendo il metro che sfuggiva dalle dita
deformate di Madame.
Il
gatto era rigido, le zampe anteriori tese in avanti, quelle
posteriori indietro. La bara sarebbe stata lunga e stretta.
L'amica
che aveva il marito falegname e il cortile dove seppellirlo rispose
al secondo squillo e annotò con cura le misure. Era l'ultimo
rimasto. Sarebbe stato l'ultimo ad andarsene.
Il
sabato seguente sul letto c'era un cestino di fiori di plastica, come
per tutti gli altri siamesi. Un cestino nel punto esatto dove se ne
erano andati.
Madame
la fece sedere al solito posto e la fissò con insistenza negli occhi
come non faceva mai. E lei promise.
I
dieci anni sono passati, è tempo di seppellire i ricordi. La
settimana prossima la casa andrà all'asta.
Si
avvicina al letto, prende il cestino e lo infila in un sacco nero
posandolo delicatamente sul fondo. Raccoglie gli altri due e li
appoggia sopra al primo. Stringe in mano il sacco, guarda il tavolo e
le sedie celesti, i ritratti dei genitori di Madame
appesi ai lati della finestra, ognuno in una cornice celeste.
Respira
adagio, come se avesse paura di smuovere la polvere, si gira e si
avvia verso la porta del bagno.
© pippicalzerotte 2014
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