venerdì 10 gennaio 2014

Celeste


Arriva in taxi davanti al portone del vecchio palazzo.
L'ascensore inizio Novecento scandisce il suo passaggio a ogni piano. Oltre la gabbia nera scorrono le porte massicce e lucide. Ne percepisce l'odore nel ricordo; olio di lino e agrumi.
L'ascensore si ferma con un saltello e la lampadina sul soffitto di mogano si spegne. Lo stesso problema di allora.
La tromba delle scale è fresca anche all'ultimo piano. La luce filtra smorzata dai vetri marroni del lucernario.
Quattro serrature l'una sull'altra dopo un'estate di furti. Due sono senza chiavi da tempo, le altre si aprono senza cigolare con una Yale dorata e una chiave lunga d'acciaio. Il giorno prima il portinaio ha spruzzato lo Svitol.
L'atrio lungo e stretto, senza finestre, è chiuso in fondo da un tramezzo di legno dipinto di celeste. Al centro la porta.
Tante volte si era chiesta di che tonalità fosse quell'azzurro che stava dappertutto, persino sulle cornici della tomba. Cercava un nome semplice, come in fondo era semplice l'idea di dipingere di azzurro tutto quello che era di legno.
Alla fine aveva deciso. Era celeste.
La stanza grande, come la chiamava lei, è inondata di luce. Le gambe del letto sono ancora infilate in grossi barattoli di vetro. «Per gli scarafaggi, capisci? Non è bello sentirseli camminare sul viso la notte. Le zampette non fanno presa sul vetro e scivolano a terra.»
Le sue spiegazioni erano chiare e semplici, e ogni domanda si esauriva con una risposta.
Si avvicina al piccolo tavolo con le due sedie e ritrova il suo posto di fronte alla finestra. I vetri sono sudici come allora. «Non riesco a fare forza con le mani. Tutta colpa dell'artrite, vedi?» E le mostrava le dita contorte e fragili, i polsi esili e nodosi come il legno dell'ulivo.
Passa un palmo sul tavolo celeste impolverato: la scrivania dei primi dettati pieni d'errori, delle conversazioni faticose e della timidezza da sciogliere, e poi finalmente delle pagine pulite senza correzioni, e del linguaggio spedito nei suoni diventati familiari.
Madame era diventata l'amica da cui ritornare ogni sabato.
Scosta la sedia e si alza, lo sguardo che cerca i cestini celesti con i fiori di plastica: uno è per terra in mezzo alla stanza, uno accanto alla porta e uno sul letto. In bagno devono essercene altri due, se ricorda bene. I colori dei fiori sono tutti grigio polvere.
Era in ritardo quella volta. Nella stanza grande era accesa solo la lampadina accanto al letto. La figura scarna di Madame le venne incontro nella penombra: una richiesta sussurrata e il gesto di una mano verso il letto mentre l'altra le porgeva un metro da sarta.
Un brivido, l'impulso di andarsene. Ma ovviamente rimase. Si avvicinò al letto e prese le misure tendendo il metro che sfuggiva dalle dita deformate di Madame.
Il gatto era rigido, le zampe anteriori tese in avanti, quelle posteriori indietro. La bara sarebbe stata lunga e stretta.
L'amica che aveva il marito falegname e il cortile dove seppellirlo rispose al secondo squillo e annotò con cura le misure. Era l'ultimo rimasto. Sarebbe stato l'ultimo ad andarsene.
Il sabato seguente sul letto c'era un cestino di fiori di plastica, come per tutti gli altri siamesi. Un cestino nel punto esatto dove se ne erano andati.
Madame la fece sedere al solito posto e la fissò con insistenza negli occhi come non faceva mai. E lei promise.
I dieci anni sono passati, è tempo di seppellire i ricordi. La settimana prossima la casa andrà all'asta.
Si avvicina al letto, prende il cestino e lo infila in un sacco nero posandolo delicatamente sul fondo. Raccoglie gli altri due e li appoggia sopra al primo. Stringe in mano il sacco, guarda il tavolo e le sedie celesti, i ritratti dei genitori di Madame appesi ai lati della finestra, ognuno in una cornice celeste.

Respira adagio, come se avesse paura di smuovere la polvere, si gira e si avvia verso la porta del bagno.

© pippicalzerotte 2014